Il ciclone Avati travolge il Petruzzelli
Una vera e propria performance quella del regista emiliano, protagonista della odierna Masterclass al Teatro Petruzzelli, dove ieri sera ha ricevuto il Federico Fellini Platinum Award del Bif&est 2017. Tra racconti di gioventù, gli incontri di una vita e quasi mezzo secolo di cinema.
“Oggi vorrei parlarvi soprattutto di felicità, perché ognuno di noi ha mille ragioni per soffrire ma anche di sperare che la nostra vita possa cambiare, che un giorno potremo essere felici, a qualsiasi età. Io, ad esempio, tutte le sere scrivo il mio discorso di accettazione dell’Oscar, tutto in inglese, conciso ma perfetto, sicuramente il miglior discorso mai pronunciato. In questa spudoratezza del sogno, si riesce a sopravvivere alle ingiustizie”.
Non ha più parlato di felicità, Pupi Avati nella sua Masterclass al Teatro Petruzzelli, moderata da Enrico Magrelli e preceduta dalla proiezione di “Una gita scolastica”. Ma ha sicuramente regalato tanta felicità al pubblico per quella che, più che una lezione, è stata una vera e propria performance, con lui irritualmente in piedi sul proscenio del palco a inanellare aneddoti sulla sua carriera e sui suoi incontri di una vita, uno più travolgente e applaudito dell’altro.
È partito da quando, ragazzo di provincia, timido, complessato e non simpatico scoprì che attraverso la musica, in particolare il jazz, poteva finalmente conquistare le tanto agognate ragazze. Finché un giorno si rese conto che il clarinetto gli piaceva di più e che attraverso lo strumento poteva realizzarsi.
“Diventai il più bravo clarinettista di Bologna, ero entrato in un’orchestra formata perlopiù da ginecologi che faceva molte tournee, anche all’estero. Un giorno, però, il capo dei ginecologi mi affiancò un altro clarinettista, un piccoletto brutto e che suonava da schifo ma che sera dopo sera seppe progredire fino a diventare più bravo di me. Allora io non contai più niente, cominciai a pensare di non suonare più, ma iniziai anche a odiare quel ragazzo che un giorno portai in cima alla Sagrada Familia di Barcellona, pensando di buttarlo giù. Si chiamava Lucio Dalla e quando finì la nostra competitività, negli anni diventammo grandi amici, ha scritto anche le colonne sonore di due miei film.”
Tra il racconto di come ha conosciuto la moglie (“Finsi che era il mio compleanno per ottenere il primo bacio, ora siamo sposati da 52 anni ed è la depositaria di tutto quello che sono e che ho fatto”) e un giudizio sulla situazione del cinema italiano (“Non lo va a vedere più nessuno, la crisi mi sembra definitiva dal momento che vanno male anche quei film che vengono prodotti per andare bene, quelli giovanilisti. Forse bisogna riconsiderare il cinema di genere come scelta coraggiosa e alternativa”) sfilano le storie e i volti di grandi protagonisti.
“La scelta di Katia Ricciarelli per ‘La seconda notte di nozze’ fu casuale, durante un pranzo con mio fratello Antonio e Maurizio Nichetti, che avrebbe dovuto dirigere il film, eravamo praticamente ubriachi e spuntò fuori il suo nome. Non aveva mai recitato ma io mi dissi ‘Se aveva sposato Pippo Baudo potrà pure fare anche la vedova!”. I primi giorni sul set furono un disastro ma poi entrò talmente bene nella parte che vinse il Nastro d’Argento come migliore attrice protagonista.
Su Vittorio De Sica: “Doveva dirigere un film su Rodolfo Valentino che poi fece Ken
Russell e il produttore, che era il regista Sandro Bolchi, mi chiese se potevo fargli da aiuto regista, dal momento che era già malato. Andai ad incontrarlo, mi presentai e lui mi chiese di dov’ero. ‘Di Bologna, risposi’. ‘Allora va benissimo’, disse lui. Tutto qui. Fu la prima e ultima volta che lo vidi”.
“Trasferitomi a Roma da Bologna, volli conoscere Federico Fellini del quale avevo tanto amato ‘8 ½’ e quando mia madre mi disse che abitava vicino casa mia, per tre giorni lo pedinai nelle sue passeggiate finché non trovai il coraggio di avvicinarlo. All’inizio era spaventato, perché si era accorto che lo stavo seguendo, ma poi si sciolse, mi abbracciò e finimmo per diventare grandi amici. Mi invitava sempre alle proiezioni private delle copie lavoro dei suoi film, lo fece anche per il suo ultimo ‘La voce della luna’ e ricordo come, durante la proiezione, telefonava più volte a Giulietta Masina per conoscere le nostre reazioni. Per dire come anche un grande come lui, alla fine della sua carriera avesse una dipendenza psicologica dagli altri”.
“Sul set del mio secondo film, ‘Thomas e gli indemoniati’, un giorno si presentò sul set una ragazza al posto dell’attrice che avevo scelto dopo circa 200 provini e che era molto differente dalla tipologia cui pensavo per il personaggio. Io la cacciai malamente e lei passò l’intera giornata fuori dalla chiesa sconsacrata dove stavamo girando. Alla fine mi impietosii e le detti il copione, convocandola per il giorno successivo. Quando fu il suo turno, lasciò tutta la troupe a bocca aperta. Vedendola recitare ho visto per la prima volta cosa fosse la verità. Si chiamava ‘Mariangela Melato’.
Sul suo futuro: “La vita ha una sua circolarità, si arriva a un certo punto in cui diventa importante ricordare, allora prima si prova nostalgia per la giovinezza e poi per l’infanzia. Io sono in quest’ultima fase, in cui ripenso al cinema che ho tanto amato da bambino, il cinema fantastico con il quale ho poi debuttato e che è tornato a sedurmi. Ho riaperto quindi il cassetto dell’immaginazione e dei racconti che mi facevano i contadini, dominati dalla presenza del Male e dalla paura che suscita. Nel mio prossimo film racconterò la storia di due bare che scomparvero nel nulla dopo l’alluvione del Polesine del 1951, le uniche che non furono mai recuperate”.